Cipriani: “Italiano tecnico preparato e coraggioso, spero che Dallinga emerga come Cruz. I bei ricordi in rossoblù prevalgono su dolori e rimpianti” | OneFootball

Cipriani: “Italiano tecnico preparato e coraggioso, spero che Dallinga emerga come Cruz. I bei ricordi in rossoblù prevalgono su dolori e rimpianti” | OneFootball

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·1 novembre 2024

Cipriani: “Italiano tecnico preparato e coraggioso, spero che Dallinga emerga come Cruz. I bei ricordi in rossoblù prevalgono su dolori e rimpianti”

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Un bolognese vero, di nascita e di fede calcistica. Quella fede che è anche riuscito ad indossare sulla pelle, dopo l’intera trafila nel settore giovanile del club felsineo, presentandosi all’Europa appena diciottenne con un capolavoro contro lo Zenit San Pietroburgo in Coppa UEFA. Era il 30 settembre 1999, sembrava l’alba di una carriera da predestinato, ma due ginocchia troppo fragili hanno compromesso il sogno di Giacomo Cipriani, capace comunque di chiudere la sua esperienza sotto le Due Torri con 72 presenze e 12 gol, inclusa una super doppietta realizzata a San Siro contro il Milan il 17 febbraio 2001. Dal 2008 in avanti ‘Cippo’ ha poi cambiato 6 maglie in 7 stagioni, con alterne fortune, e oggi a 44 anni allena i giovani che sognano di arrivare in alto, proprio come lui. Nella sua testa e nel suo cuore sempre due colori, il rosso e il blu: ce l’ha ribadito anche nell’intervista di oggi, alla vigilia di un Bologna-Lecce che lo vedrà nelle vesti di doppio ex.


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Giacomo, per cominciare aggiornaci su di te: sei rimasto nel mondo del calcio, giusto? «Sì, dopo aver appeso gli scarpini al chiodo ho cominciato ad allenare singolarmente alcuni ragazzi, poi sono arrivato a conseguire il patentino UEFA A. Negli ultimi anni ho lavorato nei settori giovanili di Imolese, Spal e Modena mentre nel 2024, per motivi personali, mi sono preso una pausa. Ora come ora posso dire che mi piace allenare i ragazzi già nella fascia d’età agonistica, comunque per il futuro non escludo di poter entrare nello staff di qualche Prima Squadra, magari rientrando nel professionismo».

Da allenatore, a oltre due mesi dall’inizio della stagione, ci aiuti ad evidenziare le peculiarità della proposta calcistica di Italiano? «L’aspetto più evidente è il suo coraggio, indipendentemente dal momento della gara e dall’avversario di turno: la linea difensiva si prende dei rischi ma lo fa per ottenere dividendi, all’interno di un calcio aggressivo e sfrontato. Ritengo Italiano un allenatore molto preparato e con una proposta interessante, fin dai tempi dello Spezia, che per certi versi definirei innovativa. Forse il suo unico vero problema, o sfortuna che dir si voglia, è stato quello di non aver quasi mai avuto a disposizione un bomber capace di risolvere certe partite, se si eccettua Vlahovic per metà stagione a Firenze».

È un limite che riscontri anche nel Bologna attuale? «Quest’anno fra i rossoblù non è ancora emerso quel giocatore sempre determinante ed in grado di offrire garanzie sul piano realizzativo, come poteva essere Arnautovic o in maniera diversa Zirkzee, che comunque decideva le partite anche quando non segnava. Castro mi sembra un ragazzo generoso e con buonissime qualità, specie nel tiro, ma non bisogna esagerare con la pressione e le aspettative: sta facendo bene, tra gol realizzati e propiziati, ma ha pur sempre vent’anni e deve completare il suo ambientamento nel calcio italiano».

E invece Dallinga riuscirà a scuotersi e imporsi? In fondo anche il tuo compagno di reparto Cruz al primo anno in Italia faticò parecchio… «La nostra Serie A è piuttosto difficile per i centravanti: fase tattica molto curata, specie a livello difensivo, marcature agguerrite e pochi spazi per giocare, un contesto ben diverso da quelli conosciuti finora da Dallinga. Quanto a Cruz, la sensazione osservandolo in allenamento era che le qualità ci fossero tutte e che prima o poi sarebbero emerse, vedremo se sarà lo stesso per l’olandese. Mi fido della competenza di Sartori e Di Vaio, evidentemente ci hanno visto doti importanti: la speranza è che il girone d’andata gli serva per adattarsi pienamente al nuovo contesto per poi cominciare a fare la differenza».

Mai due successi di fila in stagione e mai uno al Dall’Ara: la gara contro il Lecce è una sorta di spartiacque o è presto per certe definizioni? «Magari spartiacque no ma certamente fondamentale, perché in caso di bottino pieno il BFC si ritroverebbe in una posizione di classifica più consona al valore della squadra, peraltro con una partita da recuperare, seppur non facile visto che si tratta del Milan. Una vittoria domani, subito dopo quella di Cagliari, darebbe proprio un volto diverso a questo inizio di stagione. Però attenzione al Lecce, che ha ritrovato fiducia battendo il Verona tramite una bella prova».

Quanto è difficile al giorno d’oggi, per una realtà fuori dalle metropoli, raggiungere e mantenere lo status europeo? Più complicato rispetto a quando giocavi tu? «Il calcio è cambiato e fare paragoni non è semplice: quel Bologna di fine anni Novanta raggiunse per due volte la Coppa UEFA, questo si è invece ritrovato quasi all’improvviso al piano più alto del calcio europeo. Oggi il gap tra le società medie e i top club è notevole, fatturati e conseguenti possibilità di spesa sono assai differenti: in Italia ci sono sempre quelle sei-sette squadre pressoché ‘obbligate’ a qualificarsi, mentre altre come ad esempio Bologna e Fiorentina devono fare benissimo e sperare che una o più di quelle sei-sette disputi un campionato ben al di sotto delle aspettative. L’anno scorso il BFC è entrato nelle coppe con assoluto merito, e la stagione toppata da Napoli e Roma gli ha spalancato addirittura le porte della Champions League».

Una meravigliosa pagina di storia. «Sì ma difficilissima da replicare: parliamo di una stagione in cui tutto ha funzionato alla perfezione, in cui tutti gli interpreti hanno reso probabilmente di più rispetto al loro reale valore, comunque ottimo. Insomma, un campionato non dico irripetibile ma quasi. Anche la stessa Atalanta, pur essendo oggi una grande della Serie A, parte sempre un gradino sotto, e magari sfrutta le minori pressioni legate ad una qualificazione Champions che altrove, come detto, è quasi obbligatoria. Per giocarsela sul serio con Juventus, Inter, Milan e non solo manca qualcosa, specie in termini di appeal e forza economica, e allora diventa difficile ingaggiare e poi trattenere certi giocatori e allenatori».

Tornando a te, ogni tanto ripensi a come sarebbe potuta andare senza i guai fisici? Prevale il rammarico o l’orgoglio per esserti costruito una carriera da professionista? «Dovetti compiere una notevole crescita a livello personale: a vent’anni accolsi con rabbia il primo infortunio, arrivato in un momento in cui scienza e tecnologia potevano darmi una mano molto marginale. Ricordo la frustrazione di quel periodo, a maggior ragione visto che la Nazionale Under 21 puntava forte su di me e mi feci male l’anno prima dell’Europeo di categoria, restando ai box per due stagioni: mi sostituirono ed emersero attaccanti del calibro di Gilardino e Maccarone. Dopo il secondo infortunio grave, occorsomi a 25 anni e che mi costrinse a saltare altri due campionati, iniziai a guardare le cose in maniera diversa».

Ovvero? «Cominciai a guardare il bicchiere mezzo pieno e non mezzo vuoto. Forse con la consapevolezza di un ragazzo un po’ più adulto, capace in seguito di rimanere comunque nel calcio professionistico fino a 35 anni nonostante gli infortuni patiti, andando oltre le difficoltà e i dolori al ginocchio che mi porto dietro ancora oggi. Però sono conscio che senza quei problemi avrei probabilmente avuto un percorso diverso, più agevole e con maggiori soddisfazioni».

Com’è stato ritrovarsi protagonista col ‘tuo’ Bologna fin da giovane? «Era tutto bellissimo, che storia… Un ragazzo bolognese, nato e cresciuto in città, al debutto con la Prima Squadra e a segno in Coppa UEFA mentre ancora frequentava la scuola, cose che capitano di rado. Fino a pochi mesi prima andavo sugli spalti del Dall’Ara a tifare, poi mi ritrovai in campo con addosso la maglia della mia squadra del cuore. Sentivo la responsabilità: bolognese, centravanti, col nome di una leggendaria bandiera del club, le aspettative erano alte e in qualche modo le alimentai pure io, facendo bene fin da subito. C’è sempre un po’ di rammarico, lo ammetto, ma non ci si può fermare a quello che poteva essere e non è stato: meglio godersi i ricordi positivi».

Riccardo Rimondi

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Foto: Grazia Neri/Allsport/Getty Images (via OneFootball)

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