❗ Barella si racconta: “Cagliari il mio sangue. L’Inter mi è entrata nel cuore” | OneFootball

❗ Barella si racconta: “Cagliari il mio sangue. L’Inter mi è entrata nel cuore” | OneFootball

Icon: PianetaChampions

PianetaChampions

·17 Oktober 2024

❗ Barella si racconta: “Cagliari il mio sangue. L’Inter mi è entrata nel cuore”

Gambar artikel:❗ Barella si racconta: “Cagliari il mio sangue. L’Inter mi è entrata nel cuore”

Nicolò Barella si è raccontato sul canale Youtube di Matteo Caccia. Di seguito le sue parole riportate da TMW.

“Non pubblico tante cose sui social, mi piacerebbe raccontare un po’ più di me perché magari sembro lontano dai tifosi. Voglio spiegare meglio chi sono. Ho 4 figli, mi piace tutto dell’essere padre, è una scelta che ho fatto da giovane. Sono cresciuto in una famiglia numerosa, tutti hanno fatto i genitori. Ho visto crescere, mi ha sempre incuriosito questa cosa. Quando ho incontrato Federica, mia moglie, ho deciso di mettere su famiglia perché l’ho sempre desiderato. Spero di essere un buon padre, presente, essere partecipe della loro vita e renderli felici nel tempo che posso dedicare loro quando non ci sono le partite”.


Video OneFootball


Le piace la cucina? “Sì, mi piace visitare i ristoranti. Prima è nata la passione per il vino, cerco di dilettarmi in cucina”.

Com’è la sua giornata tipo quando non si allena? “Io non posso svegliarmi alle 11, devo accompagnare i bambini a scuola. Mi sveglio alle 7 e mezza, faccio colazione e porto le bambine a scuola. Vado al campo, pranzo nel centro sportivo, poi vado a casa. Alle 3 riprendo le bambini e li porto a fare sport. Dopo cena sto con mia moglie. E’ una giornata impegnativa, ma lo faccio con piacere”.

Ha cominciato a giocare a calcio a 3 anni. “Il calcio resta una passione perché è un gioco prima che un lavoro. Ci sono cose non piacevoli in questo mondo, le critiche, soprattutto sui social. Questo diventa un impegno per la testa, magari porti malumori a casa. Nella vita di un calciatore conta, da piccolo non pensavo ci sarebbero state così tante sfaccettature”.

Che ricordi ha di quando era ragazzino? “I sacrifici li facevano i miei genitori, è quello che oggi farei per i miei figli: li ringrazio di tutti gli insegnamenti. Per me non è stato un peso perché ho coltivato tante amicizie, mi sono divertito da morire. Posso solo dire grazie al calcio. Da grande le cose diventano più impegnative. Non so se ci sia stato un momento in cui ho detto che sarei diventato un professionista. Quando venivo convocato in nazionale ho cominciato a pensarci, visto che lì vanno i migliori. Dopo il salto dalla Primavera alla prima squadra non ero pronto, ma mi dicevo che potevo starci lì. Magari non pensavo di diventare un giocatore dell’Inter o della Nazionale, ma ho sempre lavorato perché succedesse. Era già tanto allenarmi con i miei idoli, una roba folle. Sono pochi che arrivano lì e sono pronti, a tutti serve tempo di imparare e maturare”.

Perché alcuni arrivano in alto e altri no? “Ho vissuto tante situazioni, ci sono motivi differenti. Per esempio, i miei genitori hanno fatto sacrifici, altri non hanno potuto. Poi ci sono di mezzo gli infortuni, l’emotività, il reggere la lontananza da casa. Ci sono tantissimi fattori, devi avere una forza interiore per fare le scelte giuste. A volte c’è la presunzione, lì è giusto che paghi”.

È molto legato a Cagliari e alla Sardegna. “La caratteristica più ‘sarda’ e ‘cagliaritana’ è di essere duro e tosto nelle idee e nel modo di essere. Il fatto di non ‘vendersi’, che forse non è la parola adatta. Io non mostro quello che non sono, io preferisco essere antipatico ma autentico. Sono onesto. Ci sono anche delle caratteristiche del mio modo di essere che non tutti concepiscono e che sto cercando di limare. Ma preferisco sbagliare che nascondermi”.

Cosa è cambiato rispetto all’inizio in lei? “Sono cambiato tantissimo, mi piaceva fare le ‘guerre’, litigare, cose che non facevano bene a me e a chi mi stava intorno. Magari mi facevo dei film, ora sono molto più sereno, anche nell’interpretazione delle partite. Stare con i miei figli mi ha insegnato che ci sono problemi più grandi, ho capito che il calcio è importante ma esistono cose più importanti. Il pensiero altrui può essere importante, ma deve rimanere lì. Le vere cose della vita sono dentro casa”.

Un tempo c’era uno striscione che recitava: “Sei bella come una protesta di Barella”. Ora è cresciuto? “Bella (ride, ndr). Sono cresciuto, ora ho più esperienza e cerco di essere meno impulsivo. Cerco di divertirmi di più, non sono più chiuso come prima. Non ho più voglia di vivere così, mi godo molto di più le fortune che ho. Anche in campo porto questo; prima volevo sempre dimostrare, ora posso anche mettermi da parte e non fare gol o assist ma aiutare i miei compagni. L’anno scorso ho fatto due gol, ma è quella che mi ha reso più contento nella mia vita”.

In finale di Champions ci si ricorda che il calcio è un gioco? “È faticoso perché, a prescindere da tutto, rimane il nostro palcoscenico, il momento in cui dimostrare che io sono forte, l’Inter e la Nazionale sono forti. Io ho sempre voluto dimostrare, quindi è difficile dire che il calcio è un gioco in quei momenti lì. Poi c’è l’adrenalina che ti dà San Siro, l’inno della Nazionale… Diventa una sfida con l’avversario, il momento in cui ti puoi esprimere, visto che nella vita non ci riesco. Una cosa che non farei mai fuori la faccio in campo, tipo tirare un calcio a un altro. In quel momento lì pensi che vuoi vincere. Ai miei figli dico di interpretarlo come un gioco”.

Ha la consapevolezza di essere forte? “A me non interessa che uno mi dica ‘sei il più forte’, non mi tocca. Rispetto il pensiero di tutti, ma non mi tocca. Ciò che mi rende orgoglioso è quando un avversario mi fa capire che sono forte; i miei compagni mi fanno sentire Dio, ma lì c’è anche l’amicizia che condiziona. Mi è capitato che qualcuno in campo volesse la mia maglia, anche di giocatori forti: per me è un orgoglio”.

Avete vinto lo Scudetto nel derby, ma la prima cosa che ha fatto è stata salutare i giocatori del Milan. “I pochi che erano rimasti, sì. Mi sono sentito di dare loro la mano, ma l’ha fatto anche qualcun altro. Io ho fatto questo gesto perché so bene cosa vuol dire. Ho perso la finale dell’Europeo Under 19. Ho dovuto rinunciare a un Mondiale con le giovanili della Nazionale perché mi sono rotto una mano e i miei compagni sono arrivati terzi. Poi sono retrocesso col Cagliari, ho perso una finale di Champions League e perso una finale di Europa League: so cosa vuol dire perdere. Dall’altra parte, ho vinto scudetti, Coppa Italia, Supercoppa, Europeo… È più facile spiegare cosa vuol dire vincere perché vedi che sto esplodendo di gioia. Perdere non sai cosa può comportare dopo, magari un’estate brutta, e a me è successo. Ti porta a dire: ‘giocherò ancora una finale di Champions?’ Non mi piace perdere, l’avrei volute vincere tutte le finali che ho giocato, ma è uno stimolo per riprovarci l’anno successivo. La testa di molti non funziona così. Io so cosa vuol dire perdere, so cosa può succedere nella testa di un giocatore anche nella vita privata. Il tifoso non ci pensa, ed è giusto perché deve fare il tifoso. Ci sono situazioni che non si vedono e che creano disagio”.

Lihat jejak penerbit