Footbola
·24 giugno 2019
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·24 giugno 2019
«Chi mi conosce sa che i miei paesi preferiti sono nel sud-est asiatico. Quando vado in vacanza è lì che voglio andare, mi piace il modo in cui pensano e vivono. Di solito dico che qui mi piacerebbe vivere e giocare a calcio. A livello geografico, sociale ed economico, c’era qualcosa a cui non si poteva dire di no». Con queste parole, mercoledì 25 luglio 2018, Brwa Nouri lasciò l’Östersunds FK da capitano accettando la ricca offerta del Bali United, A quattro anni e mezzo dal suo trasferimento dal Dalkurd allo Jämtland, tra Superettan e l’Europa League, un contratto di due anni e mezzo portava il 31enne iracheno in Indonesia. La conferma era arrivata dal presidente rossonero Daniel Kindberg («Abbiamo ricevuto una proposta che non potevamo rifiutare, auguriamo a Brwa tutto il meglio e sarà sempre una grande parte del club») e di lì a poco tutto era un ricordo.
Il 24 agosto 2017 l’Östersunds FK batté il PAOK 2-0 in Svezia, con doppietta di Saman Ghoddos, ribaltando il 3-1 di Salonicco e guadagnandosi pertanto la continuazione del sogno chiamato Europa League. A prender la parola davanti alla stampa fu proprio Nouri: «Det här var den bästa drogen» disse, ovvero «questa è la miglior droga». La reference era chiara: nove anni prima fu infatti mandato via dall’AIK dopo che la sua tossicodipendenza venne alla luce. Tutto cominciò quando, all’età di 13 anni, un amico aveva accompagnato Brwa ad allenarsi a Solna: «A Vasalund capii che ero bravo, migliore di molti altri. All’AIK tutti erano migliori di me, ma dentro di me ho detto “trova il migliore, inseguilo e diventa migliore di lui”. Sei mesi dopo ero il migliore». Nel 2008 ecco lo shock: «Gli allenatori entrarono nella mia stanza e dissero che non andava bene, allora chiesi scusa. Non sembrava che fossero arrabbiati, ma due mesi dopo mi chiamò mia madre: “stiamo andando a una riunione e tu sei fuori dal campo”. Un mese dopo la polizia tornò a casa da me, avevo 15 anni, alle 7 del mattino. Bussarono e mi portarono in prigione. Non fu un’esperienza divertente, ma mi ha dato molta empatia perché ho potuto vedere negli occhi della gente intorno. La sofferenza può portare molta saggezza. Mi rendo conto che devo assumermi le responsabilità di quello che ho fatto». E ancora: «Ho vissuto una doppia vita. Arrivavo agli allenamenti dopo aver dormito al massimo due ore».
A Östersund il ragazzo dal passato difficile trovò la felicità («Come tutti sanno ho preso droghe, ma questa era la migliore droga di sempre. È un’euforia, sono lacrime, è pelle d’oca. Sto tremando, sto congelando, ho caldo», disse a proposito della vittoria sul PAOK). Ma è il Dalkurd l’ente che contribuì maggiormente alla crescita di Nouri: «La loro è un’attività sociale più che una squadra di calcio. Vogliono aiutare le persone e dare loro una seconda possibilità. Tutti volevano aiutarmi, a tutti importava. Mi mandarono ad allenare le bambine di 7-9 anni, mi hanno aiutato loro più di quanto io li abbia mai aiutati».
Nouri, che nel 2004 fu decisivo nella finale dell’Allsvenskan giovanile, a tre settimane da quella soddisfazione era crollato. Il peso dell’azione sinergica di cannabis, cocaina e tanto alcol s’era fatto sentire. Malgrado avesse sempre sostenuto che le sue prestazioni non avrebbero risentito della sua dipendenza, a livello caratteriale qualcosa cambiò: non temeva la polizia, ma i controlli antidoping. Ai tempi dell’AIK, dopo una gara di Svenska Cupen contro l’Hudiksvall ci furono i test. Nouri non fu tra i soggetti ma uscì frettolosamente dallo spogliatoio in preda alla paura: «Presi la mia roba senza far la doccia e scappai dal Råsunda, dritto verso casa. Non ero manco nella loro lista». Le multe giornaliere, i consulti da uno psicologo, poi otto mesi di stop dal calcio e l’emarginazione dalla società vissuta da un 15enne evidentemente non abbastanza forte caratterialmente. E l’ammissione di colpa, ultimo vero tassello di una storia controversa: «Era giusto il mio licenziamento, non avevo trattato bene la gente dell’AIK anche se per diversi anni ho detto che erano una schifezza e che era colpa loro. Ora sono cresciuto e ho capito che erano gli unici che cercavano di aiutarmi. Se avessi fatto l’antidoping quella volta, forse le cose sarebbero andate diversamente e avrei avuto un aiuto professionale». Quello grazie al quale oggi è in Indonesia, sulle spiagge sognate, dopo aver affrontato l’Arsenal in Europa League.