DerbyDerbyDerby.it
·24 maggio 2019
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·24 maggio 2019
di Simone Balocco –
Anni ’70: anni di ribellione, protesta, novità, violenze e di un Mondo che doveva cambiare per forze di cose. E anche il calcio non fu estraneo a questo passaggio. Il calcio, proprio nei Settanta, divenne uno sport ancora più nazionalpopolare di quanto non lo fosse prima, seguito sempre più sugli spalti e con la nascite delle prime trasmissioni televisive dedicate. Un mondo a colori per seguire lo sport più praticato ed entusiasmante di tutti in Italia.
I Settanta fanno rima con la politica che, spinta dalle proteste del Sessantotto, cercò di farsi largo prima nelle fabbriche e nelle università e poi sugli spalti che iniziavano a muoversi verso la destra o la sinistra. Sul rettangolo di gioco la politica era un tabù poiché i calciatori erano poco propensi a parlare di politica e restii a farla. Vuoi perché è una cosa personale ed intima, vuoi perché molti non erano interessati. E da qui nacque il “mito” del calciatore poco propenso all’impegno, disinteressato a tutto se non al suo status privilegiato di calciatore.
Sono stati pochi i calciatori militanti politicamente e il più famoso è stato, senza ombra di dubbio, Paolo Sollier. Calcisticamente di giocatori come Paolo Sollier il mondo pallonaro ne è stato, ne è e ne sarà sempre pieno essendo stato “uno dei tanti”, ma dal punto di vista dell’impegno politico nessuno lo ha mai eguagliato e mai nessuno forse lo farà. Facciamo un po’ di storia di Paolo Sollier, calciatore che tra le nuove generazioni non è conosciuto. Il motivo è semplice: oggi, nel 2019, Paolo Sollier non è mainstream. Non ha vinto scudetti, non ha vinto coppe, ha giocato un solo anno in Serie A (stagione 1975/1976), ha giocato e allenato alla periferia del calcio, non va in televisione. Eppure Sollier è un’icona.
Cresce nel quartiere torinese di Vanchiglietta e si avvicina fin da giovanissimo alle organizzazioni di volontariato verso le persone bisognose. Sollier è torinese di adozione, poiché nato a Chiomonte, in Val di Susa, terra di lotta partigiana e nota ai più per le lotte, da più di trent’anni, contro la TAV.
Il giovane Paolo giocava a calcio e sognava un giorno di svoltare. Ci riuscì: divenne un calciatore professionista negli anni compresi tra il 1968 ed il 1977, anni duri ma intensi e belli. E Sollier, classe 1948, decise di entrare a piedi uniti nella storia del calcio con un gesto politico che ai tempi aveva fatto discutere: al momento dell’ingresso in campo delle squadre, quando i ventidue e la terna arbitrale erano a centrocampo e salutavano gli spettatori, lui salutava in maniera diversa dagli altri. Salutava con il braccio sinistro alzato ed in pugno chiuso: il saluto “comunista”.
Paolo Sollier è stato il primo a fare questo e quando si digita sul web il suo nome, alla sezione “immagini”, appare lui con capello lungo, barba e maglia rossa del Perugia con il braccio alzato. Un’immagine che oggi, fatta da un qualsiasi giocatore, farebbe sorridere ma che allora era il tratto di questo centrocampista offensivo che, partito dal suo Piemonte, è diventato un personaggio. Suo malgrado. Sollier era un militante di Avanguardia operaia, uno dei principali movimenti extraparlamentari della sinistra italiana. Dopo un anno di Università, lasciò gli studi in Scienze politiche e venne assunto alla FIAT proprio l’anno dell’”autunno caldo”.
Paolo Sollier unisce catena di montaggio e pallone. Partito dai biellesi della Cossatese in Serie D (dove rimase quattro stagioni), nella stagione 1971/1972 vince il suo girone (A) e approda con il club in Serie C. E’ uno dei trascinatori, ma non rimase con gli allora biancoazzurri ma approdò nella nobile decaduta del calcio italiano per antonomasia, la Pro Vercelli. In riva al Sesia rimase una sola stagione, bravo ma non fenomenale. E’ impegnato in politica: legge, ascolta musica, partecipa a dibattiti, dice la sua.
Nell’estate 1974 la grande occasione: l’approdo in Serie B alla corte del Perugia del patron d’Attoma. Il destino: Paolo “il rosso” va a giocare in una città rossa, in una provincia rossa, in una regione rossa…la cui squadra principale ha la maglia rossa. Sollier è insieme a Curi, Picella, Sabatini e Vannini coloro hanno fatto la storia della squadra umbra. Squadra umbra di proprietà del neo presidente Franco d’Attoma, il primo a volere il nome delle aziende sponsor sulle maglie qualche anno più tardi.
Sollier trascinò con sette reti la squadra ad un campionato esaltante che si concluse con la promozione del grifone per la prima volta in Serie A. Paolo Sollier da Chiomonte, Val di Susa, Torino ce l’aveva fatta. Era un personaggio atipico, Paolo Sollier, poiché destinava parte dell’ingaggio all’impegno politico nelle organizzazioni dove metteva anima, cuore e faccia, era contrario agli autografi e non considerava il calciatore un divo: per lui il calciatore e il tifoso erano sullo stesso piano (non uno subalterno all’altro) e per lui il calciatore era un ragazzo che grazie alle sue abilità riusciva a portare il pane a casa. Nulla di più, nulla di meno.
La stagione in Serie A fu molto interlocutoria per lui: 21 presenze, zero reti ma con lo scalpo della Juventus, di proprietà della famiglia Agnelli, i “padroni” della FIAT poiché perdendo contro il Perugia di Sollier all’ultima giornata perse il titolo in favore dei rivali del Torino, la squadra “operaia” della città sabauda. Eppure non sono state tutte rose e fiori per Paolo Sollier. Non nascose mai la sua fede politica e salutava i tifosi con il pugno alzato. Diventò “amico” delle tifoserie di sinistra, diventò “nemico” di quelle di destra. In particolare della Lazio (la cui curva già allora era vicina alla destra), i cui tifosi (più accesi) non gli perdonarono un’intervista in cui voleva battere “la squadra di Mussolini” il 22 febbraio 1976. Il Perugia perse e Sollier fu vittima di cori ed insulti da parte dei tifosi di casa.
Dopo la parentesi perugina, l’attaccante andò al Rimini dove rimase tre anni in Serie B e nelle sei stagioni successive fece ancora due anni a Vercelli (in Serie D), quattro a Biella (dilettanti e Serie C2) ed una stagione a Cossato, in Promozione. Insomma, uscì dal grande calcio e come allenatore ebbe la stessa sorte, con puntate in Val d’Aosta, nel Novarese, nel Pavese, nel Perugino e nel Milanese. Piazze degnissime di rispetto, ma il grande calcio era altro. Chiuse la carriera di calciatore vincendo due campionati di Serie D con squadre biellesi (Cossatese nella stagione 1971/1972 e Biellese in quella 1982/1983), un campionato di Serie B (Perugia, stagione 1974/1975), mentre da allenatore vinse un “Eccellenza” nella stagione 1997/1998 con il Sancolombano, mentre il punto più alto fu la Serie C2 nella stagione 1989/1990 con l’Oltrepò di Stradella.
Da dieci anni Sollier non allena più, se non la Nazionale italiana degli scrittori, la Osvaldo Soriano FC, ed il suo nome compare solo nelle ricerche sul web o grazie alla sua immagine da giocatore impegnato con il braccio alzato ed il pugno chiuso. Ma dietro al calciatore c’è e sempre ci sarà l’uomo: Paolo Sollier non è un sovversivo, ma uno con degli ideali che non nascondeva. Non perché volesse attirarsi le simpatie e le antipatie di qualcuno: Sollier non è un ipocrita, sapeva a cosa poteva andare incontro e prima di fare il pugno chiuso in Serie A ci pensò molto e alla fine in lui vinse la coerenza, una cosa che non appartiene a molti uomini (e donne) nel Mondo: sono comunista e saluto come fanno i comunisti.
Il pugno sinistro chiuso era un gesto per sé, per dire a sé stesso da dove veniva per dimenticarselo mai. E la sua storia di calciatore impegnato è venuta fuori al 100% con la pubblicazione del libro, nel 1976, “Calci e sputi e colpi di testa”: la sua biografia, la sua storia. Oggi è difficile (ma non impossibile) che un calciatore in campo esternalizzi il suo credo politico: ci hanno provato Socrates, Lucarelli, Zampagna e di Canio. Pochi, forse troppi ma per Paolo Sollier i gesti politici (pugno sinistro chiuso e braccio destro alzato) non sono da condannare, se non per dimostrare chi si è veramente, mentre sono da condannare se fatti per aizzare il pubblico o per cercare consensi e fare proseliti.
Ieri come oggi, si pensa che i calciatori siano privilegiati, che guadagnano tanti soldi e che vivono nella bambagia, non curanti del Mondo che li circonda e che gira intorno a loro. Sollier ha rotto l’argine: ognuno è una mente pensante ed ognuno ha una propria coscienza.
Il calcio era parte della sua vita, ma il suo primo amore era l’impegno politico: tutti lo sapevano, ma nessuno gli disse mai niente e lui non fece mai il “maestro” e convinse i compagni di squadra o gli amici a seguirlo nel suo “credo”. Lui era comunista, lui doveva essere impegnato, lui doveva alzare il pugno per dimostrare a tutti chi era, non per dimostrare cosa rappresentasse. Perché per lui il calcio era la sua vita, ma solo durante la settimana durante gli allenamenti ed i 90 minuti la domenica, per il restante c’era tutto il resto. Anche la politica.
Il calcio fu lambito dal ’68, ma nulla più: troppo protettivo e troppo distante dal resto dell’umanità. Sollier provò a cambiarlo, non ci riuscì. Il Sessantotto cambiò l’Italia e i suoi abitanti, ma non il loro sport preferito. Un fallimento? Molto probabilmente. E lo stesso Sollier, in alcune interviste, ha detto che il calcio moderno non gli piace per nulla. Lo segue, ma con distacco anche per colpa del fatto che si gioca tutti i giorni della settimana e non come ai suoi tempi dove si scendeva in campo solo la domenica pomeriggio e il “mercoledì di coppa”.
Oggi Sollier ha 71 anni, abita a Vercelli, non allena più ma corre per mantenersi in forma. E’ uscito dal calcio per sua volontà e non perché fosse scomodo, ma di lui rimane il simbolo davvero di un calcio che non c’è più. Si definisce uno “sconfitto”, ma a lui interessa poco: lui era, è e sempre sarà Paolo Sollier, il ragazzo della Val di Susa che ha cercato di cambiare il calcio ma che è diventato un’icona senza tempo del rettangolo verde.