L’oratorio di Villa Raverio, il Milan di Sacchi e Capello, gli 11 anni in Nazionale. Demetrio Albertini: “Una vita dedicata al pallone” | OneFootball

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·16 maggio 2025

L’oratorio di Villa Raverio, il Milan di Sacchi e Capello, gli 11 anni in Nazionale. Demetrio Albertini: “Una vita dedicata al pallone”

Immagine dell'articolo:L’oratorio di Villa Raverio, il Milan di Sacchi e Capello, gli 11 anni in Nazionale. Demetrio Albertini: “Una vita dedicata al pallone”

Villa Raverio ha 1.200 abitanti, è una piccola frazione di Besana in Brianza: quante possibilità esistono che un ragazzo che gioca a pallone all’oratorio possa diventare un grande campione del calcio dei grandi? Onestamente poche, eppure nella vita mai dire mai. È proprio in quel campo di calcio a 7, infatti, che ha mosso i suoi primi passi Demetrio Albertini, il cervello, oppure come più piace a lui, il ‘metronomo’ del centrocampo del grande Milan di Sacchi e Capello, nonché perno della Nazionale negli anni ’90. È proprio Albertini il protagonista della nuova monografia pubblicata su Vivo Azzurro TV: un viaggio nella vita e nella carriera di un calciatore che esordì giovanissimo sia con il Milan che con l’Italia. In maglia azzurra ha giocato 79 partite, debuttando a 20 anni (nel dicembre 1991) a Foggia in un Italia-Cipro vinta 2-0 con i gol di Baggio e Vialli e chiudendo 11 anni dopo nella vittoria in amichevole a Leeds contro l’Inghilterra (in quel marzo 2002 decise la doppietta di Montella).

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ALBERTINI “Mio padre faceva il capomastro muratore, mentre mamma era casalinga - racconta alla OTT della FIGC -. Papà era amante del calcio, è stato anche il mio primo allenatore come spesso accade in un contesto di paese. In quegli anni all’oratorio ho vissuto esperienze meravigliose, anche perché la passione per il calcio era una delle poche cose che avevo. Ricordo i vetri rotti, oppure quando scavalcavamo il cancello della parrocchia per andare a giocare: il richiamo era sempre la palla”. La vita del giovanissimo Demetrio cambia a 10 anni, quando il papà lo porta a fare un provino a Seregno. In realtà viene buttato subito in campo in una partita nel ruolo di mezzala: giocò bene, fece anche gol e dopo sei mesi “mi ritrovai a firmare il mio primo cartellino con il Milan. Nei primi anni, allenandomi due-tre volte a settimana facevo avanti e indietro con mia madre prendendo autobus e treni. A 14 anni ho iniziato ad andare a Milano da solo e a 17 anni era il momento di trasferirmi in collegio per giocare con la Primavera, ma a settembre Sacchi mi disse che sarei stato aggregato alla prima squadra in pianta stabile e lì è cambiato tutto”.


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SACCHI E CAPELLO Quello con Arrigo Sacchi è un matrimonio durato negli anni, prima col Milan, poi in Nazionale e successivamente anche appesi gli scarpini al chiodo, nella seconda carriera di Albertini, quella da dirigente: “Il rapporto con lui è meraviglioso, anche perché conosco tutti i suoi difetti e li accetto (sorride, ndr). Mi ripete sempre che sono stato l’unico calciatore che dopo aver smesso ha avuto il coraggio di lavorare con lui. C’è un rapporto di stima straordinario, anche perché mi ha insegnato a diventare giocatore di calcio, mentre prima ero solo un calciatore”. Anche a Fabio Capello Albertini deve molto: “Mi ha messo in campo titolare a 20 anni in una delle squadre più forti del mondo. Alla fine quando si gioca si cresce e il merito va alla sua scelta”.

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LA NAZIONALE E se il Milan ha rappresentato tutta la sua vita calcistica, la Nazionale è una maglia che non si è più tolto di dosso: “Con l’Italia ho iniziato con la Nazionale Under 15, ho fatto tutta la trafila vincendo l’Europeo Under 21 nel 1992 (in una squadra in cui giocavano Antonioli, Peruzzi, Muzzi, Corini, Favalli e Dino Baggio fra gli altri, ndr) e poi per 11 anni ho giocato con quella maggiore. Anche come dirigente sono rimasto legato alla Nazionale, sono più di 30 anni che ho questo rapporto di seconda famiglia con la maglia azzurra”. Giocare con l’Italia in quegli anni ha significato non solo gioie, ma anche grandi delusioni, come la finale del ’94 persa ai rigori col Brasile (Albertini segnò il suo tiro dagli 11 metri) e quell’EURO 2000 sfuggito per il golden gol di Trezeguet: “Sono state due sconfitte importanti, ma cerco sempre di guardare il lato positivo delle cose e anche solo essere arrivati in finale mi rende orgoglioso. Da dirigente ero invece presente al Mondiale del 2006, così come quando vincemmo la medaglia di bronzo in Confederation Cup nel 2013 e in quel secondo posto a EURO 2012”.

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ALBERTINI DIRIGENTE L’attenzione dell’Albertini dirigente è stata invece sempre rivolta all’innovazione e alla crescita: “Per i bambini la cosa più bella è divertirsi e sognare, poi quando si cresce si finisce per essere un po’ contaminati. Da piccolo sognavo di finire sull’album delle figurine Panini che era solo una conseguenza del diventare calciatore. Ciò che da adulti dobbiamo riuscire a fare è far staccare i bambini da una tecnologia che li porta lontani da quello che è il divertimento sportivo. Lo sport e il calcio in particolare, devono dare delle opportunità ai nostri figli e per questo dobbiamo avere un’attenzione ancora superiore, mettendoli nelle condizioni di fare il passaggio di crescita attraverso società che possano star loro vicini. Per questo motivo cinque anni fa abbiamo introdotto, come Settore Tecnico - che Albertini ha guidato da presidente dal 2019 fino allo scorso marzo - la figura e il corso di ‘responsabile del settore giovanile’. Dobbiamo creare degli specialisti per i bambini, figure a loro dedicate che possano concentrarsi molto di più all’insegnamento senza avere l’ambizione, che passa attraverso i risultati e le vittorie, di fare carriera da allenatori fra i grandi. Chi insegna ai bambini deve avere delle attitudini completamente diverse, fornendo linee guida e organizzazioni attraverso professionalità e sensibilità”. Una ‘visione’ aperta che possa essere il più trasversale possibile: “È vero che bisogna sempre contestualizzare alla nostra realtà, ma va anche guardato ciò che fanno gli altri, mai per copiare ma per prendere spunto e confrontarsi con quello che c’è fuori. Non dobbiamo arroccarci sulle nostre posizioni, ma essere aperti alle contaminazioni”.

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