Competitività e tasse: perché il ritorno del Decreto Crescita serve alla Serie A | OneFootball

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Calcio e Finanza

·14 de fevereiro de 2025

Competitività e tasse: perché il ritorno del Decreto Crescita serve alla Serie A

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L’Avvocato Mario Tenore, partner dello studio Pirola Pennuto Zei & Associati, ha scritto questo contributo per Calcio e Finanza sul tema del Decreto Crescita e sugli effetti che la scomparsa di questo regime agevolato possa avere sul campionato di Serie A e sui suoi club.

Sin dall’eliminazione delle agevolazioni fiscali per gli sportivi professionisti introdotte dal Decreto Crescita, il dibattito sull’opportunità della loro reintroduzione non si è mai sopito. Ma, sul punto, vediamo di fare chiarezza attraverso il ricorso a dati oggettivi.


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Nella stagione calcistica 2023/24, la percentuale dei calciatori che fruiva del regime impatriati era di poco superiore al 30,3%. Tale percentuale rappresenta poco meno di 1/3 del totale dei giocatori (fonte Lega Seria A) e corrisponde a 197 tesserati su un totale di 654 giocatori (a cui è stato assegnato un numero di maglia per la stagione corrente). Tutti i 20 Club di Serie A usufruivano del regime fiscale agevolato per almeno 1 tesserato.

Ora, se non v’è dubbio che il regime ha favorito l’ingresso in Italia di molti calciatori stranieri, è pur vero che nell’ultima sessione di calciomercato la mancanza del regime di favore non ha certamente ridotto il trend. Come sottolineato dall’attuale Presidente della Lega Serie A Ezio Simonelli: «Nella attuale stagione di A [n.d.r. 2024/2025] la percentuale degli stranieri utilizzati è salita al 67,2% rispetto al 63,9% della precedente. In realtà ha semplicemente inciso sulla qualità dei nuovi arrivi dall’estero, abbassandone il livello; dall’altra parte è stata ridotta la capacità dei nostri club di offrire stipendi adeguati ai fuoriclasse stranieri».

Non abbiamo ancora la controprova sulla scarsa qualità tecnica dei nuovi arrivi ma esistono elementi per valutare i benefici del regime negli anni in cui lo stesso era in vigore. Sin dall’introduzione del decreto, sono stati ottenuti importanti risultati sportivi nelle maggiori competizioni europee: ben 5 squadre italiane (Milan, Inter, Juventus, Fiorentina e Roma), dal 2019 in avanti, hanno disputato 2 finali di Europa League, 2 finali di Conference League (di cui una vinta), 1 finale di Champions League, 1 semifinale di Champions League, 2 quarti di Champions League.

L’Avvocato Mario Tenore

Non solo. È nettamente migliorato il ranking UEFA nel quale l’Italia è attualmente seconda, di conseguenza maturando il diritto a partecipare alle competizioni internazionali con il massimo numero possibile di club. In parallelo ai risultati sportivi, sarebbe interessante analizzare i bilanci dei club per capire in che misura i risultati sportivi si siano trasformati in un aumento della redditività, in maggiori ricavi derivanti da premi UEFA, incassi per la biglietteria e in ricavi da sponsorizzazione.

Non sappiamo neppure se vi sia un rapporto di causa-effetto, ma quel che è certo è che negli ultimi anni (in costanza di Decreto Crescita) i capitali stranieri hanno fatto irruzione in Italia forse attratti dal miglioramento qualitativo ed economico (soprattutto in termini di sostenibilità) di molti e tra i più prestigiosi clubs italiani (si pensi a Milan, Inter, Roma, Atalanta, Genoa, Fiorentina, Bologna, Parma, Spezia, Venezia, Palermo, Como, Pisa). Sono state avviate e, in alcuni casi concluse, importanti opere infrastrutturali (oltre al nuovo centro sportivo della Fiorentina costato oltre 100 milioni di euro, si segnalano i progetti stadio del Milan, della Roma e della stessa Inter, della Lazio). È lecito chiedersi se questi investimenti sarebbero possibili qualora le squadre italiane venissero private della possibilità di competere ai più alti livelli e di continuare, quindi, il processo di crescita virtuoso descritto in precedenza.

Vorrei fare chiarezza su un altro punto, molto spesso equivoco e al centro di facili polemiche: la presunta perdita di gettito erariale legata alle agevolazioni fiscali concesse agli sportivi professionisti. Queste ultime non necessitano di apposite “coperture” finanziarie in quanto favoriscono l’ingresso in Italia di maggiore ricchezza imponibile, conseguente al trasferimento in Italia dei soggetti beneficiari. Questi ultimi sconteranno le imposte ordinarie con riferimento agli altri redditi diversi dai redditi di lavoro (ad es. sponsorizzazioni, proventi derivanti da investimenti finanziarie anche detenuti all’estero) ed è lecito immaginare che la loro presenza in Italia – trattandosi di soggetti ad elevata capacità reddituale – determinerà maggiori consumi (ad esempio investimenti immobiliari) con evidenti ricadute in termini di maggior gettito erariale (vedasi investimenti privati, spese legate a consumi personali e familiari).

Insomma, le poche considerazioni che precedono rendono evidente che la definitiva scomparsa del regime di favore, meglio noto come decreto Crescita, determinerà un impoverimento tecnico ed economico per i club e per il settore nel suo complesso. Non solo, a beneficiare dall’eliminazione del regime non saranno neppure le casse dello Stato posto che il mancato arrivo dall’estero di calciatori ad elevata capacità reddituale determinerà una contrazione di gettito erariale.

Come auspicato da più componenti del mondo del calcio, con gran insistenza soprattutto nell’ultimo periodo, sarebbe opportuno pensare ad una reintroduzione del regime con una veste rinnovata e più spiccatamente orientata all’attrazione dell’eccellenza sportiva. Partendo dal regime preesistente, si potrebbero ipotizzare dei correttivi anche per andare incontro alle istanze sollevate dall’AIC a tutela dei vivai e dei calciatori di nazionalità italiana. Bisognerebbe, innanzitutto, pensare ad una disciplina ad hoc applicabile nel settore dello sport professionisti, non collegata alla disciplina generale in materia di rientro dei cervelli (anch’essa oggetto di una recente riforma). Al riguardo, va tenuto conto delle molteplici peculiarità del settore dello sport professionistico (e calcistico in particolare), quali la tutela dei vivai e della formazione dei settori giovanili, le specifiche peculiarità normative e regolamentari del settore dello sport professionistico (ad esempio, il numero limitato di tesserati per società sportiva).

Per evitare distorsioni che impediscano la crescita e lo sviluppo dei vivai delle società sportive italiane, si potrebbe ipotizzare un innalzamento della soglia di ingaggio minimo (attualmente fissata ad un milione di euro) o addirittura l’introduzione di un meccanismo di “detassazione progressiva”, con un beneficio crescente per soglie di reddito più elevate. Si potrebbe, inoltre, pensare di limitare il beneficio ad un numero limitato di tesserati per club. Infine, tra i requisiti si potrebbe prevedere l’obbligo per il club italiano di accedere ad una procedura di cooperative compliance settoriale, nell’ambito della quale sia possibile stabilire un’interlocuzione costante e continua con l’Agenzia delle Entrate.

Si tratta di spunti che, al netto dei tecnicismi, hanno la finalità di contemperare le esigenze delle varie componenti del mondo calcistico e le istanze rappresentate dal mondo federale, della Lega Serie A e dell’AIC. Urge un intervento.

L’assenza dei benefici fiscali per gli sportivi professionisti potrà rivelarsi un danno alla competitività del calcio italiano, che ne uscirebbe ulteriormente ridimensionato rispetto ai campionati già affermati (si pensi al Regno Unito e alla Spagna), nonché rispetto a quei campionati in cui esistono agevolazioni fiscali (in Francia, per esempio, gli sportivi professionisti godono di agevolazioni fiscali per un periodo di otto anni, non solo sui redditi corrisposti dai club francesi, ma anche sui proventi finanziari) o, ancora, nei confronti dei campionati emergenti (su tutti l’Arabia Saudita) in cui non è, di regola, previsto il pagamento di imposte sui redditi.

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