Riccardo, figlio di Dino Viola: “Sognava Vialli o Mancini. Liedholm l’allenatore prediletto” | OneFootball

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·07 de fevereiro de 2025

Riccardo, figlio di Dino Viola: “Sognava Vialli o Mancini. Liedholm l’allenatore prediletto”

Imagem do artigo:Riccardo, figlio di Dino Viola: “Sognava Vialli o Mancini. Liedholm l’allenatore prediletto”

Riccardo, figlio di Dino Viola, ha rilasciato un’intervista per Il Corriere della Sera. Queste le sue parole nell’edizione odierna:

Suo padre Dino Viola nasce in provincia di Massa Carrara, come finisce a Roma? “Mio nonno era capo stazione di Aulla in Lunigiana e aveva avuto sette figli, il primo si chiamava Ettore, eroe del Grappa plurimedagliato e nominato Conte di Ca’ Tasson per meriti militari. Il più piccolo — racconta Riccardo Viola — era mio padre, che da ragazzino viene mandato a studiare a Roma, dove abitava Ettore”.


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All’anagrafe si chiamava Adino, che nome è? “Non si è mai capito. Forse l’alterazione di Aladino o un errore all’anagrafe, ma lo ha poi cambiato in Dino”.

Da ragazzo giocava a calcio, era bravo? “Così raccontava. Uno dei suoi fratelli era amico del campione Silvio Piola, grazie a questa conoscenza mio padre fece un provino che andò bene perché era un cagnaccio da difesa, tanto da aprirgli la possibilità di andare alla Lazio. Ma lui rifiutò”.

Quando scopre la Roma? “Poco più che ventenne va allo stadio di Testaccio con Antonio Cacciavillani, un suo amico che diventerà vicepresidente della Roma, e assiste a una partita che lo fa irrimediabilmente innamorare”.

Durante la guerra era sopravvissuto per miracolo al collaudo di un bombardiere. Aveva paura di volare? “Era terrorizzato dall’idea di prendere un aereo. Nei voli delle trasferte se la faceva sotto. Una volta è tornato da Saragozza a Roma in auto”.

Già negli anni 60 diventa vicepresidente della Roma sotto la presidenza di Alvaro Marchini, ma nel 1969 si dimette. Perché? “Decide di lasciare dopo la scomparsa di Giuliano Taccola, centravanti della Roma, morto tragicamente di infarto a Cagliari. Mio padre è testimone di uno scontro durissimo tra il medico della società e l’allenatore Helenio Herrera. Qualche tempo dopo si dimette”.

Aveva una laurea in ingegneria, che lavoro faceva? “Era direttore della Simmel, un’azienda metalmeccanica con sede a Castelfranco Veneto, specializzata in manutenzioni ferroviarie e commesse Nato per il munizionamento. A Roma aveva un ufficio per i rapporti istituzionali”.

Il ritorno ai vertici della Roma è del 1979. Come fa a comprarla? “Malgrado le dimissioni aveva continuato a frequentare la società e gli spogliatoi, rompendo letteralmente le scatole a tutti. L’obiettivo era prendersi la società e grazie anche a qualche pressione di Andreotti riuscì a comprarsela, se non ricordo male per circa 3 miliardi di lire. Nell’estate 1979, dopo avere venduto la Simmel, tornò a casa e ci comunicò la notizia dell’acquisto”.

L’era Viola inizia con l’arrivo di Niels Liedholm e di giocatori come Bruno Conti e Carlo Ancelotti. “Dopo la vendita di Simmel la Roma diventa l’azienda di famiglia, mio padre non possiede altro e non dispone di risorse infinite. Motivo per cui investe su un allenatore in grado di garantire almeno la permanenza in Serie A. Per convincere Liedholm a trasferirsi, dopo avere vinto lo scudetto al Milan, gli propose un contratto triennale, una formula inedita. Nello staff c’era anche Luciano Moggi, ma il loro rapporto durò poco. Un’altra intuizione fu riportare Conti dal Genoa a Roma”.

Una sua caratteristica? “Era (dice ridendo, ndr) un bugiardo all’ennesima potenza, raccontava delle balle incredibili. Faceva credere a tutti di essere depositari di confidenze e segreti puntualmente non veri”.

Cosa diceva in privato del gol annullato a Turone, che alla Roma costò lo scudetto del 1981? “Quello non fu l’unico episodio controverso. Dopo quella vicenda volle incontrare i vertici della Federazione gioco calcio dell’epoca per chiedere maggiore rispetto e tutela. Spiegò loro che avrebbe iscritto la squadra al campionato a condizione che non si ripetessero ingiustizie plateali. Qualcosa certamente cambiò: nei dieci anni successivi, oltre alle solite Juventus, Inter e Milan, vinsero lo scudetto la Roma, il Napoli, il Verona e la Sampdoria”.

Con Boniperti, il presidente della Juventus, si scontravano spesso. “Se ne dicevano di tutti i colori, ma c’era stima reciproca. Una volta a mio padre arrivò un righello con un bigliettino con scritto “Caro Dino le invio lo strumento con il quale verificare ciò che è accaduto in campo”. Firmato Boniperti. Il giorno dopo mio padre lo spedì indietro: “Grazie, Caro Giampiero, ma le rammento che io sono ingegnere, quindi tocca a lei, geometra, il compito che mi suggerisce””.

Un vero colpo è l’acquisto del brasiliano Paulo Roberto Falcão. “Mio padre aveva provato a prendere senza successo Zico. Per caso gli arriva una videocassetta dove Falcão sembra un goleador, tanto che lo acquista. Pochi giorni dopo andiamo a vederlo giocare a Madrid, ma è una delusione mostruosa. Alla fine della partita Luciano Tessari, il vice di Liedholm, telefona a mio padre e gli dice: “Abbiamo sbagliato giocatore, quello bravo è Batista!”. I fatti hanno poi dimostrato il contrario”.

Il giocatore preferito? “Tutti e nessuno. Il suo calciatore prediletto terminava di esserlo nel momento in cui prevaricava gli interessi della Roma. È sempre stato un cinico incredibile. Anche con Conti, che adorava, in sede di rinnovo del contratto ci furono frizioni, poi ampiamente rientrate”.

L’allenatore prediletto? “Liedholm, sebbene gli toccasse assecondarne la superstizione e portare la squadra a Busto Arsizio, dal mago Mario Maggi. Liedholm si fidava ciecamente e a un certo punto questo mago gli disse che Benetti, il nostro mediano, lo vedeva bene nelle partite nelle coppe europee ma non in campionato. Benetti si ritrovò in panchina. Inutile dire che il mago Maggi rischiò di essere fatto fuori da Benetti”.

Un campione che avrebbe voluto in squadra? “Vialli o Mancini, poi gli piacevano i vari Cabrini, Tardelli, Scirea”.

Scontri memorabili con giocatori o allenatori? “Tanti e molto duri, ma è meglio sorvolare visto che alcuni sono ancora su piazza”.

Con Falcão finì male. “Falcão aveva un contratto e si scoprì che l’Inter stava trattando per portarlo via. Si attivò, addirittura, Andreotti per evitare il trasferimento e Falcão ottenne un contratto triplicato. Al rinnovo successivo la richiesta salì a una cifra sproporzionata con Falcão che, tra l’altro, si era infortunato. Per mio padre non c’era dubbio: il contratto andava risolto. Insomma, finì male. Con i tifosi furibondi”.

Aveva qualche rito? “In famiglia teneva al rito domenicale della consegna delle tessere di abbonamento. Prima di andare allo stadio le consegnava e poi, finita la partita, se le riprendeva. Mentre la sera della domenica mangiava pastasciutta, se aveva vinto, oppure minestrina”.

È stato senatore della Dc. “Ha sempre utilizzato la politica, ma frequentava poco il Parlamento: era un fumatore accanito e lì non si poteva fumare. Sfruttava con grande abilità ogni situazione. Paolo Mantovani era presidente della Sampdoria e deteneva il cartellino di Pietro Vierchowod, mio padre lo aiutò a incontrare Andreotti e in cambio ottenne in prestito gratis Vierchowod. Questo era mio padre”.

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